domenica 28 novembre 2010

Padre e figlio chi sta meglio???

Padri e figli (Foto Fotolia)

Disoccupazione, lavoro precario, salari bassi, poche opportunità, difficoltà a uscire dalla famiglia e a crearne un'altra. I giovani italiani fino ai 30-35 anni si trovano senza dubbio in una condizione difficile. Ma è proprio vero che i figli stanno peggio dei padri? È corretta l'opinione, piuttosto diffusa, per cui questa sarebbe la prima generazione di giovani, dal dopoguerra a oggi, che raggiunge un livello di benessere inferiore a quello delle precedenti?
Il dibattito è tuttora aperto e dare una risposta definitiva a questi interrogativi è alquanto arduo, anche perché il modo in cui ciascuno percepisce la propria condizione di vita è soggettivo. Tuttavia, prendendo spunto dai dati di alcuni indicatori oggettivi nel corso del tempo è possibile farsi un'idea più chiara su quale generazione abbia goduto dei maggiori vantaggi.
Reddito, povertà e pressione fiscale
Esistono vari dati secondo cui, nel complesso, il livello di benessere attuale in Italia è più basso di quello che si registrava qualche decennio fa. La situazione coinvolge quindi sia le nuove generazioni che quelle precedenti, anche perché riguarda direttamente le famiglie, che sono da sempre il principale "ammortizzatore sociale" del nostro Paese. Qualche esempio? Alla fine degli anni '70, il 20% delle persone che vivevano in una famiglia dove il capofamiglia era un operaio erano povere: la stessa quota è salita al 31% all'inizio del 2000. Alcune elaborazioni effettuate sull'archivio storico dell'Indagine della Banca d'Italia sui bilanci delle famiglie testimoniano che, se tra il 1977 e il 1980, la diffusione della povertà in Italia era del 18,1%, tra il 2004 e il 2006 è cresciuta fino al 20,4%, a prescindere dall'occupazione del capofamiglia.
In questo contesto, possono essere illuminanti anche i dati sul reddito reale pro capite, cioè la ricchezza degli italiani misurata in base al costo della vita. L'Istat certifica che il potere d'acquisto pro capite in Italia è passato da un valore medio di circa 14.600 euro nel 2000 a uno di circa 14.270 euro nel 2009. Insomma, sembra che gli italiani si stiano impoverendo anno dopo anno e che la ricchezza complessiva sia tornata indietro ai valori di un decennio fa. Ad aggravare la situazione ci sono anche le statistiche sulla pressione fiscale, che è cresciuta continuamente dagli anni '80 fino a oggi, salvo alcune lievi flessioni a metà degli anni'90 e nei primi anni del nuovo secolo. Nel 1980 il livello delle tasse era pari al 31,3% del reddito, nel 2009 al 43,2%: più di dieci punti percentuali di aumento in circa vent'anni.
Il debito pubblico
L'esiguità di risorse per le nuove generazioni è anche dovuta a uno dei principali responsabili dei ritardi nella crescita economica del Paese: il suo immenso debito pubblico. A settembre del 2010 ha raggiunto la quota stratosferica di 1.844,8 miliardi di euro, i quali divisi per ogni cittadino italiano (neonati compresi) equivalgono a circa 30.740 euro a persona. Secondo una rilevazione fatta da Eurostat nel 2009, il valore del debito pubblico italiano era pari al 116% del Pil e in base a varie previsioni autorevoli è destinato a superare nei prossimi anni il 120%. Al debito sono associati i salatissimi interessi che ogni anno lo Stato deve versare agli investitori che hanno prestato denaro alle casse pubbliche. Il vero paradosso di questa situazione è che a creare socialmente questo enorme debito sono state proprio le generazioni precedenti a quella attuale, magari per proteggere il livello di benessere raggiunto sulle ali del boom economico degli anni '60. I più giovani quindi hanno ereditato questo macigno e ne pagano il conto ora avendo meno soldi pubblici a disposizione. Se si va indietro nel tempo, si scopre per esempio che nel 1980 il rapporto tra debito e Pil in Italia era molto inferiore: il 60%, un dato in linea con la media degli altri paesi europei. L'esplosione si è avuta solo negli anni successivi, fino a raggiungere nel 1994 il 121,5% del Pil: la responsabilità quindi non è di quelli che vengono definiti "bamboccioni".
Le pensioni
Un elemento che invece differenzia nettamente i padri dai figli è il trattamento pensionistico. Se al momento il tasso di sostituzione (quanto vale, in percentuale, la pensione rispetto all'ultimo stipendio) di chi smette di lavorare in questi anni è pari al 70-80%, per il futuro le prospettive sono ben diverse e molto più difficili. Secondo il Rapporto sullo stato sociale 2010 elaborato dal dipartimento di Economia pubblica dell'Università La Sapienza di Roma, un lavoratore dipendente con contratto a tempo indeterminato che andrà in pensione nel 2035 con 65 anni di età e 35 anni di contributi prenderà appena il 58% dell'ultima retribuzione.
Una situazione ancora più drammatica attende i lavoratori parasubordinati (co.co.co, co.co.pro., collaborazioni occasionali) con gli stessi requisiti: il loro trattamento previdenziale coprirà circa il 43% dell'ultimo compenso percepito. Sono loro quindi i più penalizzati dal nuovo metodo contributivo introdotto dalla riforma Dini, anche perché di solito i redditi di questa categoria sono bassi e discontinui. Per i parasubordinati che hanno cominciato nel '96, ad esempio, sarà difficile maturare una pensione superiore all'assegno sociale, che attualmente è poco più di 400 euro. Solo per quelli che iniziano a lavorare in questi anni e che sono obbligati a versare contributi più alti, il quadro è un po' più favorevole: in base ai calcoli della società Progetica, un giovane di 25 anni che comincia un lavoro parasubordinato adesso e va in pensione a 65 anni può ricevere fino a un massimo del 62% del suo stipendio.
La disoccupazione e il lavoro precario
Un altro tema fondamentale per capire chi sta meglio tra le nuove generazioni e quelle precedenti è ovviamente il lavoro. I dati Ocse rivelano che in Italia, dagli anni '60 al 2000, il tasso di occupazione (la quota di popolazione attiva che ha un impiego) è progressivamente calato: approssimativamente, nel 1960 era il 63%, nel 1970 il 57%, nel 1980 il 56%, nel 1990 il 54% e nel 2000 poco più del 50%. Segno che prima, nel nostro Paese, la partecipazione al lavoro è andata man mano diminuendo ed è ripresa soltanto negli ultimi dieci anni: ora è di nuovo intorno al 56%, come trent'anni fa.
Nel decennio passato è calato anche il tasso di disoccupazione, passando da più dell'11% del 2000 a meno del 7% nel 2008 per poi risalire in questi ultimi due anni anche a causa della crisi: a settembre era dell'8,3%. Letti così, i dati sulla disoccupazione potrebbero sembrare anche piuttosto positivi, visto che il numero di persone senza lavoro negli ultimi anni si è abbassato. Bisogna considerare però due aspetti.
Il primo è che i giovani sono quelli che beneficiano di meno del rallentamento della disoccupazione che si è avuto da inizio secolo. A settembre del 2010, il tasso di disoccupazione giovanile è salito al 26,4%, e prima della crisi era intorno al 15%. Il picco si è raggiunto lo scorso aprile, quando il livello delle persone senza lavoro tra i 15 e i 24 anni aveva oltrepassato il 29%, come a dire che in Italia un giovane su tre non lavora.
La seconda considerazione da fare per comprendere meglio i dati generali sulla disoccupazione è che buona parte dei nuovi occupati sono i cosiddetti precari, ovvero i lavoratori (soprattutto giovani) che non godono di un contratto di lavoro a tempo indeterminato e che percepiscono un salario mediamente più basso rispetto ai loro colleghi più "stabili". La precarietà del lavoro era una realtà pressoché assente nel secolo scorso e questo ha permesso alle famiglie di qualche decennio fa di comprare case, automobili e beni durevoli: un'opportunità spesso negata alle nuove generazioni. Tanto per avere un'idea della dimensione del fenomeno basta consultare i dati Istat riferiti al 2009, per cui in Italia ci sono più di 2,5 milioni di precari, sommando i dipendenti a tempo determinato (2.153.000) con i collaboratori (396.000). L'occupazione irregolare è pari al 12 per cento del totale.
È anche vero, tuttavia, che i posti di lavoro da qualche parte ci sono ma quando hanno poco appeal sui giovani vengono addirittura rifiutati: è il caso dei mestieri manuali trascurati (sarti, panettieri, falegnami…). Un recente studio di Confartigianato rivela, per esempio, che a fronte di circa 550.000 nuove assunzioni previste per il 2010 le aziende italiane hanno grosse difficoltà a coprire oltre 147.000 posizioni.
Insomma, un dato definitivo per stabilire chi se la passa meglio tra padri e figli non c'è. Certo è che nessuna delle due generazioni al momento può dirsi davvero soddisfatta della propria condizione.

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